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Carocci: Biblioteca medievale

Il testamento di Cresseida. Testo inglese a fronte

Robert Henryson

Libro

editore: Carocci

anno edizione: 1998

pagine: 102

Il Testament of Cresseid composto dallo scrittore scozzese Robert Henryson nella seconda metà del Quattrocento, racconta la fine dolorosa di Cresseida, amante infedele di Troilo, un. episodio della. famosa storia d'amore trattata da autori come Boccaccio, Chaucer. Shakespeare. Il Testament che apparve di seguito al Troilus and Criseyde nell'edizione Thynne delle opere di Chaucer del 1532, fu considerato fino al XVIII secolo la vera conclusione del poema chauceriano. In realtà la narrativa si propone come una parentesi all'interno del libro V deI Troilus, prima della morte dell'eroe. Cresseida, abbandonata da Diomede e divenuta prostituta nel campo greco ritorna dal padre e maledice gli dei per la sua rovina. Colpita dalla lebbra, Cresseida incontra Troilo per l'ultima volta; ma i suoi occhi; come il suo volto, sono offuscati dalla malattia e i due amanti non si riconoscono. "Chissà se tutto quel che Chaucer scrisse era vero", si domanda il narratore fingendo di ispirarsi a un altro racconto, e attribuisce una propria individualità morale e letteraria a Cresseida, che dall'autocommiserazione iniziale passa all'ammissione della colpa: "Soltanto me stessa ora voglio accusare". E tuttavia il mondo di Cresseida rimane distante da quello cristiano con "un senso della fine" che la tomba e l'epitaffio contribuiscono ad accentuare: "Mirate, belle dame, Cresseida troiana, / Un tempo stimata il fìore tra le donne, / Sotto questa pietra, già lebbrosa, ora giace". Ma è proprio grazie all'intervento autoriale dì Henryson che la memoria di Cresseida rimarrà per sempre nella mente del lettore come monito e come testimonianza della fama del poeta.
11,90 11,31

Waltharius. Epica e saga tra Virgilio e i Nibelunghi

Waltharius. Epica e saga tra Virgilio e i Nibelunghi

BIBLIOTECA MED

Libro

editore: Carocci

anno edizione: 1998

pagine: 104

Sullo sfondo tra lo storico e il mitico di un'Europa attraversata dalle invasioni barbariche, con personaggi che saranno poi del ciclo carolingio e della saga nibelungica, il Waltharius narra la scia di dolore e di sangue che colora la storia d'amore di una coppia di giovani in fuga dalla terra degli Unni. Walther, principe d'Aquitania, e Hiltgunt, principessa di Borgogna, erano stati dati in ostaggio dai loro genitori ad Attila, in cambio di un trattato di pace; con loro era andato in esilio, come ostaggio dai Franchi, Haghen, al posto del figlio del figlio del re Gunther, ancora in troppo tenera età. Dopo anni passati alla corte e nelle grazie del grande sovrano orientale di sua moglie, i tre giovani, ormai cresciuti, decidono di tornare alle loro rispettive patrie primo fugge Haghen; lo segue poco dopo la coppia, portando con sé una pane del tesero degli Unni. Ma alla caccia dei due fuggiaschi si getta Gunther, ormai re dei Franchi, seguito da dodici suoi cavalieri tra cui Haghen. Questi lo scongiura di evitare comunque lo scontro col fortissimo Walther, di cui ben conosce l'abilità guerriera, e Walther stesso si dice disposto a cedere parte del tesoro degli Unni per evitare la lotta. Ma Gunther è accecato dall'avidità e manda i suoi uomini all'attacco dell'Aquitano. Ponendosi al riparo di una grotta e di uno stretto sentiero che impediscono agli avversari l'attacco in massa, Walther abbatte uno ad uno i guerrieri franchi, in un crescendo di violenze, di furori e di disperazione. Ma Gunther ancora non desiste, e riesce a convincere Haghen ad andare all'attacco dell'amico d'infanzia: lo assaliranno in due contro uno, appena uscirà dalla grotta. Il duello finale è tremendo, data la stoffa di guerrieri soprattutto di Walther e Haghen, e finisce coi contendenti tutti e tre mutilati: Walther della mano destra, Haghen di un occhio, il vile Gunther di una gamba. Dopo essersi riconciliato con l 'antico amico Haghen, Walther e Hiltgunt si mettono in cammino per l'Aquitania dove sposatisi, regneranno felicemente ancora per trent'anni.
13,30

La battaglia di Maldon

La battaglia di Maldon

LUNI

Libro

editore: Carocci

anno edizione: 1998

pagine: 192

9,30

L'amoroso cerchio

J. De Sant Jordi

Libro

editore: Carocci

anno edizione: 1997

pagine: 152

La lirica provenzale, tramontata nel Mezzogiorno della Francia alla fine del Duecento, sopravvisse per oltre un secolo, nella stessa lingua dei trovatosi, al di là dei Pirenei. Nei Paesi Catalani un gruppo di poeti, principalmente legati alla corte aragonese, dà vita a una produzione raffinata e ricca di caratteri originali; fedele nel complesso ai moduli trobadorici, ma anche aperta all'influenza francese e soprattutto a quella italiana (è proprio qui che si possono cogliere i primi precocissimi echi del petrarchismo in Europa). Il cavaliere valenzano Jordi de Sant Jordi, nato negli ultimi anni del secolo XIV e morto in giovane età nel 1424, fu al servizio di Alfonso il Magnanimo e prese parte alla spedizione di Sardegna e Corsica nel 1420. Seguì poi il suo re a Napoli, dove nel 1423 cadde per un breve periodo prigioniero del condottiero Sforza, che combatteva per la regina Giovanna II d'Angiò-Durazzo. Il suo piccolo ma variegato canzoniere ripercorre, non senza note di ironia, la maggior parte dei generi lirici occitani, alcuni dei quali abbastanza rari: dal grande canto d´amore alla satira, all'indovinello (devinalh), alla "noia" (enueg), alla canzone di riscatto (in occasione della prigionia napoletana), fino alla Passio amoris un poemetto cum autorictate, cioè intessuto di citazioni dai classici volgari. Nella sua poesia risaltano immagini vivide e potenti, che spingono agli estremi limiti il registro metaforico cortese. A Jordi de Sant Jordi, con la sua breve parabola esistenziale e poetica, è toccata la sorte di chiudere per sempre ma non in sordina, la lirica cortese d'ispirazione trobadorica. Per questo può essere considerato, in assoluto, l'ultimo trovatore: con lui finisce, con eleganza e con grazia, un'intera epoca della letteratura europea.
11,90 11,31

Giganti, incantatori e draghi

Libro

editore: Carocci

anno edizione: 1997

pagine: 336

Insieme al Cantare di Igor' le byline - un genere di tradizione orale, che sta tra la ballata, la leggenda popolare e la fiaba - sono la testimonianza più alta della letteratura russa antica. Ci trasportano in un mondo avventuroso e duplice, in parte ancora pagano, abitato da giganti, da incantatori, da draghi. L'eroe delle byline è il bogatir' valoroso e cavalleresco, ora in lotta con la Madre Terra, come il titanico e stolto Svjatogor, ora confrontato sfidato, con esito tragico, da un alter ego femminile che si proclama forte e ardito come lui, più di lui (Dunaj). Ora or pace di scendere in una bara di bianca quercia nel grembo della terra insieme alla sposa morta per resuscitarla con acqua della vita (Michajlo Potyk), ora dotato di poteri sciamanici, che gli consentono di trasformarsi a piacere in ermellino, in uro dalle corna d'oro, in fiero lupo, in balenante falco, per nutrire i guerrieri della sua schiera (Vol'ch Vseslav'evic ): "In balenante falco si converte / lontano volò sull' azzurro mare / abbatté oche e bianchi cigni /né v'era scampo per le bigie anatrine / nutriva-dissetava Vol'ch la prode druzina / e aveva sempre nuovi cibi / cibi diversi e prelibati»"
16,30 15,49

Commento all'Eneide

Fabio P. Fulgenzio

Libro

editore: Carocci

anno edizione: 1997

pagine: 108

La Virgiliana continentia di Fabio Fulgenzio Planciade, scrittore africano vissuto forse all'epoca della dominazione vandala (V-V1 sec.), è il più antico commento allegorico dell'Eneide. Il poema virgiliano è qui interpretato come un'allegoria della vita umana. Secondo uno schema già applicato nella cultura classica al commento dei poemi omerici, la mappa delle peripezie di Enea si tramuta in un itinerario esistenziale, che si snoda attraverso le varie fasi della vita: nascita, infanzia, fanciullezza, adolescenza e maturità. Fondate in gran parte sull'etimologia le stravaganti interpretazioni di Fulgenzio - che persegue consapevolmente l'enormitas, con una deliberata sfida all'intelligenza - fecero autorità per secoli in campo allegorico: il suo commento fu letto, copiato, chiosato, imitato per tutto il medioevo. Esso garantì al poema virgiliano una leggibilìtà in chiave morale che lo rese utilizzabile da parte del pensiero cristiano: senza di esso nemmeno il pellegrino della Commedia dantesca sarebbe divenuto quella sorta di Enea cristiano che tutti conoscono. Ma Fulgenzio sapeva che se - come sosteneva Massimo di Tiro - la penombra della poesia rende più bella la verità che vi è nascosta, è anche vero che questa penombra genera altra penombra. Congedandosi dal suo lettore, lo invita allora a mettere alla prova il suo acume e a sciogliere il "cruciverba" che gli sta davanti riempiendolo dei suoi contenuti segreti o volutamente inespressi: "Addio, mio signore. Leggi con molta attenzione il ginepraio del mio pensiero".
11,90 11,31

La tavola ritonda

La tavola ritonda

Libro

editore: Carocci

anno edizione: 1997

pagine: 596

Fra i grandi miti cavallereschi che fiorirono in Francia durante il secolo XII per poi diffondersi rapidamente in tutta Europa, il pubblico italiano sembra aver prediletto quello di Tristano e Isotta, come testimoniano e numerose versioni della storia composte - soprattutto in Toscana e nel Veneto -a partire dal Duecento. La più originale e completa è certamente La Tavola Ritonda, che include la tragica storia d'amore in un vasto e animato affresco narrativo del mondo arturiano: alla storia di Tristano si intrecciano così quelle di Lancillotto e Ginevra. la ricerca del Santo Graal e numerose altre avventure. Il protagonista - malgrado la sua passione peccaminosa per Isotta - diventa qui un modello perfetto di valore e virtù, incarnazione esemplare di quel sogno cavalleresco e tardogotico nel quale la borghesia dei Comuni toscani inseguì la propria immagine ideale. Ma lo spirito borghese del suo anonimo autore, un pisano della prima metà del Trecento, si rivela soprattutto nella libertà che egli mostra nei confronti della materia tradizionale, nel suo sguardo di osservatore lucido e talora ironico, nella fluidità e scorrevolezza del suo stile narrativo, che sembrano già annunciare l'ispirazione di un Boiardo o di un Ariosto. Suo appena dissimulato portavoce è Dinadano, il cavaliere che smitizza con le sue spassose battute, in nome di una prudenza e di un buon senso che non vanno esenti da una certa dose di codardia, i grandi ideali amorosi e guerreschi dei suoi compagni: ogni mattina, quando si sveglia - confessa un giorno a Isotta - prega Iddio di non incontrare un cavaliere troppo valoroso, perchgli sono già capitare troppe brutte avventure...
21,80

La città delle dame

La città delle dame

Christine de Pizan

Libro

editore: Carocci

anno edizione: 1997

pagine: 528

19,00

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