Affiori: Poesia

"Figlia del vento, figlia della noia" si snoda in tre parti, le quali rappresentano l’animo dell’autrice: “Senso dell’abbandono”, in cui i versi seguono un flusso emotivo intenso descrivendo l’amore, in ogni sua sfumatura, come miccia, fuoco e distruzione; “Senso del possesso”, i componimenti sono portavoce dell’anima riconciliata con la propria vera natura, in un percorso di riscoperta e riappropriazione del sé; “Senso di appartenenza”, i versi attraversano la terra natia dell’autrice e quella d’approdo, abbracciando così ogni luogo e non luogo. Iniziati in piena pandemia, questi cinquantasei componimenti ripercorrono pezzi di vita e di quotidianità, amori veri e platonici, cartoline di luoghi abitati per due giorni ma resi eterni dalle parole. Cristina Tedde, perennemente alla ricerca di nuove chiavi di lettura, è spinta dal vento della conoscenza che soffia impetuoso – come nell’isola da cui proviene.

L’altalena e le parole è una silloge di poesie che trae ispirazione da contesti di vita, da esperienze e da momenti interiori vissuti. Il titolo ha diversi significati “simbolici” legati agli stati d’animo e agli eventi della vita, intesi come un febbrile movimento oscillatorio. La raccolta è divisa in sezioni e ognuna di queste riporta sensazioni diverse, legate al tema prescelto. La scrittura diventa un rituale quotidiano, quasi uno sfogo, un lamento e infine una cura che si realizza attraverso un percorso metaforico interiore. Una scrittura essenziale ed evocativa, che si articola come una visione per frammenti di immagini che attraversano il momento. L’altalena e le parole nasce da spigoli interiori che rappresentano il nostro essere, ognuno nella propria e unica forma. Viaggiatori nell’incognita del tempo, nelle imprevedibili oscillazioni della vita.

Questo libro parla di violenza di genere con un approccio diretto attraverso versi dolorosi e a tratti crudi. Versi sentiti che hanno lo scopo di sensibilizzare e dare voce a tutti coloro che voce non hanno. Poesie ispirate da vissuti personali e intimi e da fatti di cronaca, come quello di Giulia Tramontano e Giulia Cecchettin. Storie di donne e di uomini che si trasformano in versi potenti e vanno al cuore di qualcosa che di cuore è mancante: la violenza.

Le novantanove quartine di endecasillabi che compongono Biblioteca dell’incongruo rendono omaggio a una tradizione che va dalle Rubʿayyāt del poeta persiano ʿUmar Khayyām alle Quadras di Fernando Pessoa, dagli esempi presenti nelle rime di Michelangelo alle Cento quartine e altre storie d’amore di Patrizia Valduga. La raccolta intende coniugare questa particolare forma breve con due universi poetici e narrativi che hanno attraversato l’immaginario contemporaneo: la letteratura inesistente e il disturbo dissociativo dell’identità. Le opere di Jorge Luis Borges e di Roberto Bolaño hanno svelato definitivamente il potenziale creativo degli pseudobiblia, mentre il disturbo da personalità multipla è stato di ispirazione per romanzi come Una stanza piena di gente di Daniel Keyes e Fight Club di Chuck Palahniuk. Biblioteca dell’incongruo esplora queste due dimensioni, articolandosi nella silloge di un poeta franto in novantanove autori e autrici di libri possibili.

Un tempo si pensava che nel mondo esistessero luoghi determinati che ne segnavano la fine. La fascinazione di questa idea permane, ed è in fondo parte di ognuno di noi. La Terra che l’autore racconta in questo libro finisce dove è iniziata: nella casa dell’infanzia. Un luogo abitato dalle ombre degli affetti perduti. Nell’esilio della morte di chi amiamo quel che resta sono i gesti, gli sguardi, le parole e le cose vissute insieme. In questo ritorno nella vecchia casa, le ombre del passato hanno raccontato all’autore delle storie. Minasi cuce attraverso la poesia quel taglio inesorabile che divide in due la nostra esistenza quando perdiamo una persona cara. I versi di questa raccolta sono rammendi affettivi che ornano di luce nuova le crepe di quell’universo d’amore spaccato. Riappacificarsi con un tempo che non c’è è una sorta di patto con una felicità perduta, una ricerca di una fine e al tempo stesso di un nuovo inizio.

Questi sono canti di protesta e di ribellione; di rabbia e di disagio da parte di chi, all’interno di un sofisticato sistema di dogmi e verità stereotipate, proprio non riesce a ritrovarsi. Una resistenza personale che vorrebbe farsi comunitaria, collettiva, sfruttando lo strumento della poesia. Il pirata protagonista di questa silloge, archetipo dell’uomo libero e in costante movimento, è infatti sempre in cerca di nuovi compagni per la sua ciurma. Partendo da sé stesso e da ciò che è per lui la poesia, il suo cammino si dipana tra uno scontro e l’altro, riflettendo il bisogno di libertà e autenticità frustrato dal vivere in un ambiente altro e ostile; infine, preservando la sua mente e riappropriandosi di quel tesoro che è il tempo, riuscirà a salpare ancora e senza l’autorizzazione di alcun potente, ma con una “lettera di corsa” scritta di suo pugno.

Limbo è una raccolta di poesie e illustrazioni che esplora il passaggio dall’infatuazione al disinnamoramento. L’opera è divisa in tre sezioni: “Illusione”, “Limbo” e “Disillusione”, ognuna di esse rappresenta una fase del processo. Inoltre, la numerazione delle poesie le associa in coppie sulla base della loro somiglianza o, al contrario, distonia. Quest’ultimo è gioco che invita il lettore a partecipare attivamente alle tematiche trattate dall’autrice: lo scontro tra illusione e realtà, la lontananza come agente di tormento o di sublimazione e, infine, il rapporto tra artista, opera e musa ispiratrice. Componimenti e rappresentazioni grafiche si sostengono a vicenda per creare un immaginario vivido e simbolico.

È necessario frantumarsi. Abbandonare il proprio nome, lasciarsi guidare. Di colpo, tramite un’epifania mai cercata o ambita, ma che risponde a sentieri ancora oscuri e sotterranei, ci si è resi conto di quanto possa essere profonda la trama della realtà. La nostalgia verso ciò che non si ha mai avuto diventa nostalgia di ciò che siamo. Ora. Lo sguardo perduto e malinconico che si volge alla finestra riceve un nuovo colore. Ecco la luce che taglia la memoria trasformando incontri e discorsi, sogni e destini in sensazioni che avvolgono la pelle e non la lasciano più andare. Il cuore è gonfio ma non è forte abbastanza, il grido è una voce che resta in bocca. Non succede niente, tutto continua a vivere chiassosamente e in quiete. Gioia crudele dagli occhi di regina egizia. Che sta negli animali, nei fiori, nella pioggia. Dio strana oasi. Vivere è un atto estremamente incomprensibile. Eppure c’è. Vivere è: c’è. Lucciole nel buio dell’autunno. Proteine che vagano e noi dentro di loro.

"Di girasoli e d’immortalità" racconta la paura dello scorrere del tempo, della vecchiaia e, soprattutto, dello stupore suscitato dalla permanenza ostinata dei sentimenti e dal rinnovarsi della vita. I girasoli e l’immortalità sono i due lontanissimi estremi fra i quali oscilla una ricerca poetica sulla triste bellezza dell’esistenza materiale, sul significato affettivo e filosofico dei dettagli nel quotidiano, sulla valenza delle piccole emozioni dimenticate, quelle che spesso riemergono da ricordi che credevamo perduti. I momenti della vita familiare all’interno della silloge si intrecciano, tuttavia, anche con temi più contemporanei, ispirati all’attualità e alla disgregazione dei ruoli di genere nella relazione di coppia, con le impressioni che l’autrice raccoglie durante i suoi viaggi.

"Siamo al mondo per farci male" è una raccolta poetica che unisce un linguaggio diretto, crudo e talvolta brutale, a toni evocativi ed enigmatici. Divisa in tre sezioni – “Materia”, “Mitragliatrici & rose” e “Etere” – l’opera intreccia temi di amore e distruzione, rabbia e desiderio aprendo alla profonda e intima riflessione sulla condizione umana. In “Materia” i versi affondano nelle contraddizioni terrene: il corpo e i suoi impulsi diventano roghi, braci ancora ardenti su cui si consumano passione e tormento. In “Mitragliatrici & rose” il tono si fa più bellicoso e disperato, come se l’amore stesso fosse una trincea in cui cadere e rialzarsi, tra disperazione e aneliti di salvezza. Nell’ultima parte, “Etere”, il conflitto assume sfumature quasi mistiche, evocando la lotta tra spiritualità e fragilità, tra la ricerca di una luce superiore e la ricaduta nell’abisso. Speranza e devastazione si susseguono vicendevolmente, il dolore diventa poesia e l’amore si confonde con la rovina.

Cos’è la libertà? È questo il leitmotiv – quasi ossessivo – che accompagna Rubare i gelsomini alle fate, una raccolta di trenta componimenti in cui emerge un io in evoluzione, prima offuscato, centro d’intenzioni e azioni favorevoli ad altri e, poi, esplosivo, che punta i piedi, rendendosi così protagonista della sua stessa dichiarazione di assertività: “volere quel che posso”. Questa silloge rappresenta il paradigma della speranza dell’autrice di ritrovarsi avvolta dalla luce e del suo intimo riscatto dopo anni maltrattati. L’opera si delinea come una vera e propria narrazione in versi di episodi, sogni, esperienze divenute lezioni e ricordi di strade percorse, mani che non si toccano più, profumi che conservano la potenza di momenti eterni e voci urlanti che pagano l’ingiusto dazio di vivere una normalità alterata.

Vitacce è un viaggio nella vita, attraverso gli occhi e il cuore dell’autrice Ilaria Barbara Cardile. Una vita piena di emozioni, introspezione, ricerca spirituale e dolore, esplorata attraverso tre sezioni: “Acino”, il frutto d’origine del passato, dell’Io e della storia; “Mosto”, il fiorire del presente, della speranza e delle relazioni di carne e sesso; “Aceto”, l’intorpidirsi del tempo in una distorsione di odio, rabbia, distruzione e vendetta. È un viaggio connesso tra il mondo del vino, della vite e della vita, alla quale l’autrice cerca di restare attaccata, affrontando tutti i suoi processi di trasformazione.