Aragno: Castalia
Sël finagi
Bianca Dorato
Libro
editore: Aragno
anno edizione: 2014
Un libro di inediti che esce postumo. I passi di Bianca Dorato camminano dentro, i suoi itinerari sono sprofondi, i suoi colli annuncio, le sue "drere" (i suoi sentieri) destino. Il suo lirismo è drammatico, perché mette a prova i sentimenti oppositivi della paura e della disperazione, della gioia e della speranza. I suoi incontri sono cruciali, perché attraverso i movimenti dell'esistere rivelano l'inattingibile segreto dell'essere. Le sue soglie sono passaggi verso l'alto e verso l'altro. Il suo è sempre un qui ed ora che si converte in ebbrezza di eterno (come accade in Biagio Marin, che è stato per la Dorato un vero e proprio maieuta). Le sue costanti sono la frontiera e l'attesa. I suoi sestanti la ferita e l'ignoto, il nascosto e la meraviglia (il miele che ne scaturisce). I suoi "segnali" sono orme che la neve sottrae come il seme che germoglia nel silenzio. I suoi sensi sono i più eletti: la vista e l'udito, l'occhio e l'orecchio, la traccia e il bramito. Non dunque il tanto andare, ma piuttosto l'orma e l'ombra che l'accompagnano, la traccia di luce che nella fatica attende la rivelazione. Il desiderio guarda al lontano e ne spreme il timbro doloroso, il sapore d'aspra e amorosa solitudine, espressa nelle parole di un glossario randagio, di un erbario o di un bestiario tanto concreti quanto simbolici, densi di tutta la forza d'una scienza robustamente poetica e spirituale.
Spòreve
Francesco Granatiero
Libro
editore: Aragno
anno edizione: 2019
"Spòreve, dice il poeta. Potatura. Ma Granatiero è potatore da sempre. Potatore per esperienza d'esercizio proprio, e potatore per pratica d'esercizio poetico. Come l'intrecciare canestri è stato il principio della sua terza rima, così il potare gli ulivi, che qui compaiono, con tutta evidenza in apposita sezione, continua a essere il principio fondamentale della sua poetica, del suo intendimento di poesia. Granatiero è poeta che persuade se si muove entro i suoi statuti abituali, entro le sue gabbie, entro i suoi panieri. Già non è mai stato effuso, non ha mai abusato della sua parola, che - tutt'al contrario - ha sempre voluto esatta, precisa, commisurata. E meno che mai lo è oggi. Sempre ha prevalso e prevale la ragione precipua del suo scavo dentro un mondo di parole recuperate con pazienza certosina, spigolate dalla memoria e dalla voce dei suoi testimoni antichi, addirittura arcaici, e composte in un vocabolario sorprendentemente ricco, ma soprattutto esatto: una parola per ogni cosa, una parola per ogni frammento di cosa; non sinonimi, ma unicità, corrispondenza di cosa-parola. La poesia più alta - sempre nella domestica dimensione di quotidiani stimoli - sta laddove il poeta rivela tutta la sua capacità di imprimere alle cose la loro piega - magari amara e persino funebre - non tradendone la metaforica allusività, capace di collegamenti remoti che sprigionano scintille vitali in attriti e voli di fantasia. L'esempio massimo in componimenti come Chepe de prete, quella testa di pietra che sollecita domande. Che cosa venuta a cercare? Che cosa a dire "da u sprefunne/lu tímbe"? (e l'enjambement va notato). Che cosa può mai pensare una testa di pietra? Che cosa ripetere agli astri? Quale dialogo intrecciare? Se non la magnifica, abissale, vertiginosa, contemplazione degli spazi tra terrestri e siderali? Gli spazi in cui viviamo".
Troppo tardi per Santiago
Giorgio Luzzi
Libro
editore: Aragno
anno edizione: 2015
Valtellinese di nascita e torinese di elezione, Giorgio Luzzi è traduttore, critico letterario (soprattutto di poesia), cultore di incroci e commistioni, collezionista di frontiere. Il suo tracciato poetico è caratterizzato in superficie da una densità che riesce tuttavia a parlare attraverso i bagliori ferrigni di un espressionismo non scatenato. Dentro il percorso ingrato di un dire "oscuro" come può essere oscuro un viaggio di ricerca d'una verità indecidibile, il filo rosso è un linguaggio plurilingue e plurisangue in cui si condensa il senso dell'imprendibile: non altro se non il frutto di una ben dichiarata "inattuale inutilità". A circolare dappertutto è un senso di degrado, di disfatta, o meglio: di tradimento. Dell'uomo che tradisce se stesso, la rissa nefanda, la "serva istoria", i conti che non tornano mai, le crepe, le sconfitte, i nodi, i complotti, tra "mondo pesante" e "inganno del pensante". Sono le lacerazioni ecologiche, "il disonore" che "non ha tregua", i massacri dei migranti, la raccolta schiava dei pomodori, i mercanti del tutto, oro e dignità, i "lugubri carnami", la striscia di Gaza e l'odio che divide e la "sordida parete", le "scacchiere di morte", il "violentàme". Nell'itinerario ormai annoso di Giorgio Luzzi, "Troppo tardi per Santiago" si segnala come il frutto più maturo di un impegno assiduo e risoluto. Così privo di "ornazione", o di ornato. Così ricco di fiato.
L'autra armada
Claudio Salvagno
Libro
editore: Aragno
anno edizione: 2013
Prendendo il suo titolo dal primo poemetto, "L'autra armada", il nuovo libro rivela tutto il fuoco centrale della passione che anima il dettato. E la vitalità, anche, di una denuncia che va dal particolare al tutto. Quale "autra armada" se non quella, sì delle vite 'partigiane', ma più ancora della vita che ci chiama a una guerra tutta interiore, tutta risolta nelle imboscate del sangue, nei colpi del cuore, nel risveglio "d'aquel drai que duerm dins nos"? "Autra", dunque, perché? Autra perché insieme con la guerra degli eserciti sta la guerra dei negati, dei dolori, la battaglia dei giorni consumati nell'ombra e consunti nell'inutile "Tem dau Colera". Ma nella carne nostra, nel destino del corpo che si strazia e non trova conforto. C'è l'armata dei ricordi "arditats". C'è l'armata dei "jorns negats". C'è l'armata (anche "armeia") "desperdua que da siecles/ e siecles va a querre novels pastorals" (con la felice invenzione della retroguardia dei suicidi). C'è l'armata "de trebulats". C'è l'armata "vegetal/ da arbol a arbol". C'è "una armeia a la desbranda" o "al champ d'la desfacha". C'è "una armeia a travers i prats", che è tutta un discorrere d'erbe e di parole sonanti come "un plettro". A fare da conduttore è ancora e sempre il filo della poesia, il linguaggio occitano a forte densità metaforica, la sua ricchezza di invenzione, la sua altezza di sguardo, la sua difesa d'amore ("Arparats da la mòrt/ degun es estat a garda de l'amor"), la sua natura meravigliosamente vocale.